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Inferno Tesla: parlano altri dipendenti

Non c’è solo il famoso sabotatore ad agitare i sogni di Elon Musk: ora anche altri dipendenti di Tesla escono allo scoperto.

Riferendosi ai ben noti problemi alla catena produttiva della sua auto elettrica di massa Model 3, il CEO di Tesla Elon Musk non esitò a parlare di “Production Hell“. Un inferno. Le cronache raccontano di Musk che dorme su un divano in fabbrica e non si lava né cambia i vestiti per cinque giorni di fila. Tutto molto romantico, perfettamente in linea con l’ideale dell’imprenditore eroe che vuole cambiare il mondo creando l’auto elettrica di massa.

Adesso, però, arrivano anche altre versioni e altri racconti sul “Production Hell” di Tesla. E non sono bei racconti. Il primo è quello, ormai ben noto e che vi abbiamo già riportato, del presunto sabotatore che, dopo essere stato licenziato in tronco con l’accusa di aver sabotato alcuni processi produttivi e raccontato alla stampa dettagli riservati sulla produzione, tramite un noto avvocato ha denunciato Tesla alla SEC americana.

Secondo questo “whistleblower“, di nome Martin Tripp, Tesla avrebbe deliberatamente utilizzato batterie poco sicure per le sue auto di serie e gonfiato la sua capacità produttiva agli occhi degli investitori (nei confronti dei quali Tesla, ad oggi, ha un debito di circa 10 miliardi di dollari).


Nuove accuse, invece, sono riportate da Bloomberg che ha raccolto diverse testimonianze (alcune sono anonime) di lavoratori ed ex lavoratori che descrivono un vero inferno all’interno della fabbrica di Freemont.

Turni da sedici ore, fine settimana lavorativi imposti dall’alto, Elon Musk che grida agli operai impegnati nella linea di produzione ma ogni tanto offre litri e litri di Redbull per tenerli svegli. Alcuni dipendenti parlano anche di “sguardi da zombie” nei reparti produttivi ma anche di operai costretti a camminare tra i liquami nel reparto verniciatura.

Sempre riguardo ai turni produttivi, l’autorevole giornale americano parla di moltissimi operai spostati dalla linea produttiva di altri modelli a quella (anzi quelle, vista la seconda catena montata nella tenda fuori dalla fabbrica) della Model 3. E questo particolare è significativo perché fa il paio con il licenziamento di 3.000 dipendenti (ufficialmente tutti impiegati, però) avvenuto ai primi di giugno.

Ora, la coperta è corta: se licenzi dipendenti e ne sposti altri da una catena all’altra forse riesci a risolvere i problemi per la Model 3, ma lasci indietro gli altri modelli. Quindi potrebbe essere vero, come afferma Tripp, che Tesla non avrebbe raccontato tutta la verità sulle sue capacità produttive agli investitori.

Poi Bloomberg riporta un dettaglio significativo, compatibile con le dichiarazioni del presunto sabotatore Tripp. Le batterie usate da Tesla sono prodotte in collaborazione con Panasonic. A lungo Tesla ha usato batterie Panasonic 18650 ma per la Model 3 ha scelto di usare batterie più grandi, per avere maggiore autonomia, le Panasonic 2170.

Bloomberg riporta che questo ha creato problemi perché le nuove batterie sono più grandi delle precedenti e i robot non riuscivano a “impacchettarle” correttamente. Sempre secondo le testimonianze raccolta da Bloomberg ciò ha portato per un certo periodi di tempo a cambiare la procedura e a montare le batterie a mano.

Tripp aveva dichiarato di aver visto casi in cui le batterie erano state montate troppo vicine l’una all’altra. “Pericolosamente vicine“, queste le sue parole.


Ma ci sarebbe anche di peggio e non sarebbe legato alla Model 3. Il 18 novembre 2016, otto mesi prima dell’inizio della produzione della mid size elettrica, un tecnico di nome Robert Limon è stato investito da un muletto nel piazzale antistante la fabbrica. I colleghi lo hanno trovato riverso sull’asfalto con un fiume di sangue che usciva dalla sua gamba.

L’incidente sarebbe stato causato dal mulettista che stava sostanzialmente giocando: faceva i cerchi con il muletto a forche abbassate e ha colpito Limon ferendolo. Secondo le persone che hanno visto e parlato con Limon nei giorni successivi all’incidente, e come confermato dalle foto viste da Bloomberg, la gamba ferita è stata amputata.

La responsabilità di questo episodio non può certamente essere attribuita a Tesla, ma è abbastanza facile capire che la politica di sicurezza sul lavoro adottata dall’azienda nel caso specifico era del tutto insufficiente. E’ difficile pensare, oggi come nel 2016, a un episodio del genere in un’altra fabbrica di automobili di uno qualunque dei principali costruttori.

Nei mesi successivi all’incidente un responsabile della sicurezza sul lavoro, Justine White, ha dato dimissioni dopo aver inviato “ripetute raccomandazioni sulla sicurezza” in merito alle “informazioni da dare ai dipendenti sui rischi derivanti dai carrelli elevatori dopo l’amputazione della gamba inferiore di un dipendente a seguito di incidente“.


Tesla ha contestato le affermazioni di White ma secondo quanto riferisce il Center for Investigative Reporting un ex direttore delle politiche ambientali, per la salute e la sicurezza di Tesla, di nome Carlos Ramirez, ha denunciato l’azienda per averlo licenziato a giugno 2017 dopo che aveva ripetutamente segnalato condizioni di lavoro poco sicure, come l’esposizione degli operai a sostanze chimiche e fuoco.

Sempre secondo il Center for Investigative Reporting, inoltre, Tesla adotterebbe la pratica di ridurre sistematicamente l’entità degli incidenti sul lavoro, facendo passare per poco gravi anche episodi preoccupanti. Questo per abbassare e migliorare le sue statistiche sugli incidenti.

Secondo l’associazione no profit Work Safe gli incidenti sul lavoro avvenuti in Tesla nel periodo 2014-16 sono ben al di sopra della media del settore automobilistico. Tesla, che non è una azienda sindacalizzata, risponde nel 2017 gli incidenti sono diminuiti del 25% rientrando nella media del settore.

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