Evergrande: la crisi del gigante cinese potrebbe pesare sul settore auto
La crisi del colosso immobiliare cinese, che possiede una propria Divisione auto, influenzerà il comparto automotive? Analizziamo la situazione.
Il settore della finanza mondiale vive una fase di grande incertezza a causa delle notevoli difficoltà (per usare un eufemismo) che riguardano Evergrande. Il “big player” cinese dell’immobiliare, a rischio default – che tuttavia potrebbe essere scongiurato se il Governo cinese interverrà: in che modo, si saprà solamente più avanti – è direttamente collegato all’automotive.
Dunque, se Evergrande andasse a gambe all’aria, per il comparto dell’auto arriverebbero nuove difficoltà: e questa sarebbe un’ulteriore mazzata nella non certo facile situazione della filiera, già da tempo alle prese con la crisi dei semiconduttori e degli aumenti delle materie prime. Ma andiamo con ordine.
Uno dei settori in cui Evergrande si è cimentata è quello dell’auto elettrica, attraverso Evergrande Nev (ovvero “New Energy Vehicles”), fondata nel 2019 e le cui radici vanno trovate anche in una precedente acquisizione delle attività di Saab. In pochi mesi, quello che era l’ultimo arrivato nel settore dell’auto fece un passo da gigante, in virtù di una maxi-capitalizzazione nell’ordine di 90 miliardi di dollari ed un portafoglio di progetti piuttosto corposo, sebbene da spalmare a lungo termine: entro il 2035, attraverso l’altrettanto nuovo “brand” Hengchi, il “capitolato” di intenti prevedeva il lancio di sei auto elettriche di alta gamma. Come il SUV “3” protagonista di un’anteprima al Salone di Shanghai 2021, progettato (in Italia) da Mike Robinson per Icona Design.
La questione-chiave è legata ad un grande dubbio: la nuova lineup sarebbe già stata delineata, eppure alla luce dei fatti nessuno è in grado di dire se i progetti saranno effettivamente tradotti in pratica. Già nella seconda parte dell’estate 2021, il titolo Evergrande Nev era arrivato a perdere circa il 90% del proprio valore, proprio a causa delle difficoltà della holding principale.
Da qui l’incertezza: nel caso di un fallimento di Evergrande, la neonata branca auto ne seguirebbe le sorti. Con in più un problema ulteriore: le conseguenze sarebbero più ampie. Per meglio analizzare questa ipotesi, è necessario riavvolgere il nastro di qualche anno e tornare all’epoca del “caso” Lehman Brothers, dove una crisi finanziaria ebbe delle ripercussioni sul comparto automotive.
La grande crisi del 2008
I libri di storia ricorderanno a lungo il 15 settembre 2008: Lehman Brothers, schiacciata da 600 miliardi di dollari di debiti finanziari e 160 miliardi di dollari in obbligazioni, depositò istanza di fallimento in quanto il “passivo” era troppo elevato in ordine alla ben conosciuta bolla dei subprime. Sebbene gli USA, in precedenza, avessero tentato con ogni mezzo il salvataggio di importanti banche, nel caso di Lehman Brothers non ci fu niente da fare, il mondo bancario statunitense non si lascò convincere dai “piani alti” politici, e per uno dei più storici istituti di credito di New York venne decretato il collasso.
Immediatamente – come rapido è il propagarsi delle notizie nell’era del digitale – i mercati finanziari mondiali vennero presi dal panico. E fu lì che iniziò una delle più gravi situazioni di difficoltà dai tempi della Grande Depressione scaturita dal “Giovedì nero” di Wall Street del 24 ottobre 1929. Enormi somme di denaro bruciate in pochi giorni, ai minimi termini la fiducia degli investitori, delle stesse banche (che dovettero correre subito ai ripari e chiedere una “pezza” da parte di Washington dopo anni di temerarietà finanziaria) e dei consumatori.
Come risultato, in capo ad una manciata di mesi si determinarono elevata disoccupazione, crollo dei consumi e degli investimenti, una miriade di aziende “a terra”. Nel 2009, poi, l’apoteosi: due colossi dell’industria americana – di più: due simboli della storia USA – come Chrysler e General Motors invocarono il “Chapter 11”. Solamente Ford riuscì ad evitare per un pelo il disastro, grazie ad un maxi-prestito accordato dall’amministrazione Bush ed al denaro che aveva in cassa per via delle precedenti vendite di Jaguar, Land Rover e Volvo e delle partecipazioni in Mazda.
Ripercussioni in Europa
La crisi del 2008-2009 non si fece attendere al di qua dell’Oceano: furono soprattutto i grandi istituti di credito britannici, francesi e tedeschi – cioè quelli maggiormente legati al comparto immobiliare americano – ad accusare i contraccolpi della stretta sui crediti che si verificò tra le banche mondiali, tanto da dover chiedere una mano ai rispettivi Governi nazionali ma anche alle istituzioni europee (anche, va detto, per via della garanzia accordata dalla Federal Reserve).
Da lì, la grave congiuntura che tenne banco, per almeno due anni, in Europa. E fu una crisi non solamente finanziaria, ma anche – essendo questi settori spesso correlati – sociale e politica. Incidentalmente, il comparto automotive fu uno dei primi ad essersi trovato in difficoltà. Se in Germania, grazie ad una massiccia presenza in Cina – già all’epoca in “escalation” nel settore dell’auto – le grandi Case costruttrici riuscirono a salvarsi, in Francia fu l’allora presidente Nicolas Sarkozy ad intervenire, mediante la concessione di un prestito da 3 miliardi di euro, per dare una boccata d’ossigeno a Peugeot ed a Renault.
Il rimborso fu rapido (già nel 2011 venne estinto), tuttavia il “rosso” nei bilanci si fece sentire notevolmente, tanto che PSA dovette nel 2012 (quando cioè da molte altre parti il peggio era già passato) chiedere un nuovo prestito pubblico (7 miliardi di euro), ed ancora più avanti (2014) arrivò una nuova ancora di salvezza. Le conseguenze? Eccole: lo Stato francese divenne azionista di rilievo, insieme al “colosso” cinese Dongfeng, e la famiglia Peugeot dovette dire addio al controllo dell’azienda. Diverso è il caso dell’Italia: il Gruppo Fiat, guidato da Sergio Marchionne, riuscì – seppure fra notevoli difficoltà – a contenere le perdite, e diede il via (con molto coraggio, in quanto ciò avvenne nel 2009, quando la crisi era nel pieno della sua gravità) all’”agreement” con Chrysler che, in capo ad un lustro, sarebbe evoluto nella nascita di Fca da cui, via via, è stata generata Stellantis.
Cosa sta succedendo in Cina
Ecco perché, quali che siano eventuali conseguenze, la crisi Evergrande è un caso politico e non soltanto finanziario: il copione già in parte scritto dall’epoca Lehman Brothers assegna al Governo nazionale – che intervenga oppure no – un ruolo di primo piano.
In effetti, ci si trova di fronte ad una situazione paradigmatica: il mercato immobiliare cinese è da diverso tempo in piena bolla creditizia cui hanno contribuito notevoli e costanti iniezioni di denaro da parte di Pechino che, per non rischiare di essere contagiato dalle crisi occidentali (Lehman Brothers appunto, ma anche il debito Eurozona, la crisi della Grecia e “last but not least” le incertezze legate alla Brexit) non ha esitato a rimpinguare il mercato con continue liquidità e dato facilmente carta bianca alle banche per erogare i crediti connessi ai programmi di investimento nelle infrastrutture e in materia urbanistica.
Maggiore autorità dal Governo
Questo, fino a poco tempo fa. La situazione è gradualmente mutata: con l’obiettivo di scongiurare fughe di capitali e frenare un eccessivo liberismo, l’esecutivo comunista cinese ha provveduto con un ulteriore giro di vite ad imporre maggiore autorità in materia economico-finanziaria, anche per evitare fenomeni di rabbia sociale.
Un esempio su tutti, ben noto, riguarda Ali Baba, il cui fondatore Jack Ma – che non era tenero nei confronti dell’apparato finanziario cinese – non si è più fatto sentire. Per ampiezza di settori di interesse, il caso Evergrande è se possibile ancora più vasto: in ballo non c’è solamente il comparto immobiliare, ma anche banche, assicurazioni e – in ultimo – gli stessi investitori e non necessariamente (non solo) piccoli risparmiatori, quanto anche grandi aziende, cinesi e pure occidentali.
Evitare l’effetto domino
Ecco perché i 300 miliardi di debiti che pesano su Evergrande (quasi un terzo dei quali sono con le banche) pesano ancora di più del “semplice” valore in cifre: si teme, in buona sostanza, un effetto-domino che contagerebbe i consumi di beni non primari tuttavia importanti, come è appunto l’auto. Con la differenza (e non è cosa da poco) che in tredici anni esatti – cioè dall’”esplosione” della vicenda Lehman Brothers – il comparto automotive si è evoluto in maniera epocale, e proprio in materia di elettrificazione: a questo è direttamente legata, per intenderci, la crisi dei chip ed i prezzi sempre più elevati che i Gruppi occidentali devono affrontare per approvvigionarsene (soprattutto, per restare in Europa, i “brand” tedeschi che in Cina sono arrivati ad ottenere fino a un terzo dei livelli di vendite complessivi).
In effetti, è recente il monito di Xiao Yaqing, ministro dell’Industria cinese, per un veloce riassetto del comparto auto in Cina rivolto ad una sostanziale riduzione delle aziende (e sono qualcosa come 300) che attualmente formano il tessuto produttivo. Se quindi il Governo cinese deciderà per il salvataggio di Evergrande (ma non è affatto scontato per l’orientamento “anti-Paperoni” adottato dall’esecutivo), a farne le spese potrebbe essere proprio la Divisione automotive.