Barack Obama e le auto: i salvataggi e gli errori
Obama: scade domani il suo mandato. Il salvataggio di GM e Chrysler, è nella storia, ma il mercato è ripartito grazie ai prestiti facili ai clienti.
Barack Obama sarà ricordato come il Presidente degli Stati Uniti che ha salvato l’industria americana dell’auto. Storica la sua decisione alla fine del 2009 di intervenire pesantemente con fondi pubblici salvaguardare le aziende automobilistiche di Detroit, ma alla fine del suo mandato è tempo di essere più pragmatici. É utile capire se quel settore che sembrava al culmine di una crisi definitiva si sia completamente riconvertito e rialzato, oppure se la Casa Bianca abbia tamponato una falla, lasciando sul campo i problemi di sempre, casomai “in un nuovo allestimento”.
Conti e marchi coinvolti parlano di un investimento statale di 87 miliardi di dollari per sostenere General Motors e Chrysler, mentre Ford decise di non ricorrere a nessuna forma di aiuto. Attraverso lo strumento del Capitolo 11, un meccanismo di amministrazione controllata, ì manager indicati da Obama intervennero direttamente nella gestione delle due aziende mettendo mano ai bilanci e scorporando i debiti.
Un meccanismo di tipo statalista mai visto nella storia di una economia dichiaratamente liberista come quello degli Stati Uniti, e di cui lo stesso Obama ha fatto un racconto nel 2016: “L’industria americana dell’automobile era sull’orlo del collasso. Le fabbriche stavano chiudendo. Centinaia di migliaia di lavoratori venivano licenziati. Ora quell’industria è tornata. Da quando è stato attuato il nostro piano, le compagnie hanno creato oltre 640.000 nuovi posti di lavoro”
Le vendite di auto negli Usa nel 2016 sembrerebbero dargli ragione, con un totale di 17.506.782 vetture immatricolate, anche se la crescita rispetto al 2015 è solo dello 0,3%, con un rallentamento finale in vista del record storico che la dice tutta sui problemi che restano e sull’entusiasmo che comincia a svanire. Con alcuni precisi perché.
Gli obiettivi mancati
Obama, nel 2009 parlava di “energy game” come chiave del rilancio, dunque non bastava rifinanziare le aziende che producono auto, ma serviva infondere una nuova cultura ambientale che trasformasse i prodotti obsoleti ed inquinanti in vetture competitive e moderne non solo per gli standard della profonda provincia americana, ma per il mondo.
I dati di vendita del 2016 raccontano invece dei modelli di sempre, con i truck in cima alla graduatoria dei contratti seguiti dai crossover, la presenza molto limitata di vetture ibride nei listini dei costruttori statunitensi e l’assenza di una legislazione nazionale che li obbligasse, a livello federale, ad inserire nelle gamme almeno una vettura a trazione elettrica.
La California, da questo punto di vista, resta un’isola. E poi la beffa dei grandi volumi di vendita, che rischia di cancellare tutto quanto fatto finora.
Il doping del leasing
Negli States esiste una vera e propria bolla speculativa sui contratti di leasing automobilistico, che avrebbe gonfiato di oltre il 30% la domanda di vetture. Da mesi lo segnala Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase, che ricorda come il mercato dei prestiti per le auto vale una cosa come 1.000 miliardi di dollari.
Per sostenere una domanda necessaria anche dal punto di vista politico, le banche hanno allentato via via i requisiti per la concessione dei finanziamenti ai clienti privati, e secondo quello che ormai è un filone di analisi per J.D. Power, negli States una vettura su tre è acquistata con formule di leasing a 72 mesi e valutazioni molto generose sul valore residuo. Veicoli invendibili sul mercato dell’usato, a patto di non abbattere i prezzi, mettere in ginocchio le rete dei concessionari e togliere prospettive di crescita alle auto nuove. Riportandoci indietro al 2009.