Mini Takes The States 2016: attraversare gli USA a bordo di 1000 Mini
Mini Takes The States: il raid che attraversa gli Stati Uniti in beneficenza
Per chi arriva a Detroit in Gennaio, quando il Motor Show sta per aprire, la città è un posto inospitale. Il freddo ti assale, la gente non ha voglia di perdersi in chiacchiere e su tutto domina quella fastidiosa coltre bianca di ghiaccio misto a neve. No, non mi piaceva Detroit, ed ogni occasione era buona per ripeterlo quando tornavo a casa. Mi sbagliavo, ovviamente. O meglio, mi sbagliavo quando pensavo che fosse una posto terribile per tutto l’anno.
Questa volta è piena estate, non c’è il salone ma c’è un gruppo di Mini ad aspettarmi. Sono tra le 700 ed il migliaio, e basta questo a farmi strabuzzare gli occhi. Sono le partecipanti al Mini Takes The States 2016, un raduno itinerante a scopo benefico che al suo passaggio stravolgerà simpaticamente la placida quiete di molte cittadine.
Le vedo sfrecciare per la città come se fossi in una puntata di Wacky Races. Sono colorate, simpatiche ed estroverse. Quando si radunano al parcheggio dell’East Market di Detroit incomincia la festa. I proprietari chiacchierano tra loro, si scambiano informazioni e controllano le “pin”. Si, perché ad ogni tappa ne viene assegnata una, c’è chi farà tutte le tappe, chi una sola. Più ne hai, più godi di considerazione. L’occhio mi scappa sulla decina di food truck a nostra disposizione. Niente a che vedere con i baracchini nostrani. Gli americani sanno mettersi in fila e senza sgomitare ti viene servito ogni ben di Dio. Hambugher, hot dogs, fried chicken, tacos, e costolette di maiale stile “House of Cards”. C’è tutto quello che serve a farsi venire appetito, saziarsi istantaneamente e… oltre.
Da Detroit a St. Ignace
La partenza per noi è fissata il giorno successivo a Pontiac, un nome che evoca automobilismo solo a sentirlo. Ed il luogo scelto per il raduno mattutino è l’M1 Concourse, un gioiellino che contiene al proprio interno una pista, una serie di garage dove sistemare le proprie vetture e, soprattutto, dove trovarsi con altri appassionati; non manca il ristorante ed un piccolo museo. Si, qui si respira America: tutto è esageratamente “storico”, per un qualcosa nato qualche decennio fa. Stelle e strisce ovunque, e qualche bandiera inglese che scorgiamo sul tetto delle Mini. C’è chi si è portato dietro un bulldog in perfetto stile Mini, c’è chi ha messo le ciglia ai fari, chi l’intero set di peluche di Guerre Stellari. E’ un grande gioco, e quando la carovana parte siamo pronti a goderci il viaggio in direzione Nord Michigan.
Le 800 mini del giorno si disperdono rapidamente nel traffico, e ognuno decide il proprio percorso. Lasciamo il conglomerato urbano di Detroit e cerchiamo di evitare le highways, anche perché in fin dei conti le statali sono dimensionate come le nostre autostrade a due corsie. Pochissimo traffico, prati e colline che diventano foreste senza fine. Cielo blu circondato da un muro verde su un nastro d’asfalto: sembra un film. Cambiamo la sintonia della radio, che qui è satellitare, perché gli spazi non consentono una copertura FM. E’ una giornata blues e rock, nella migliore tradizione musicale del Michigan.
Arriviamo nell’Upper Peninsola proprio quando si mette a piovere, e la temperatura precipita di una quindicina di gradi. Abbiamo dovuto attraversare il Mackinac Bridge, che qui chiamano affettuosamente “Big Mac”. Inaugurato nel 1957, è attualmente il 16° ponte sospeso più lungo del mondo, sceso in classifica dopo l’arrivo di una decina di ponti costruiti tra Cina, Giappone e Corea del Sud.
Da St. Ignace verso Green Bay
Una nuova mattina, una colazione tutti insieme, un altro raduno di Mini. Conosco John e la moglie Nancy. Sarà la fisionomia del volto, la catenina d’oro o come si veste, ma non ci vuole molto ad intuire che è un italoamericano. E’ stato convinto a partecipare dall’amica di Nancy, Bridget, veterana della scorsa edizione, e non esita a raccontarmi la storia della propria famiglia, emigrata dal sud Italia. Non abbiamo molto tempo ma ci promettiamo a vicenda che ci rivedremo la sera.
E’ ora di ripartire nella nostra attraversata del midwest. Si, il “Big Mac” rappresenta un definitivo confine immaginario che rende il degrado ed il caos dell’area suburbana di Detroit distante quanto potrebbe esserlo l’Italia. Un territorio immerso nella natura, paesini da cartolina, architetture in legno dai colori scelti con buon gusto che la bella giornata ci permette di godere appieno. Mettiamo su miglia su miglia, passando minuti ed ore in una piacevole monotonia di alberi, interrotta solo da cartelli pubblicitari di case in affitto e bed and breakfast con vista lago. Ci piacerebbe fermarci per un weekend immersi nella natura, magari un’altra volta.
Suscitiamo curiosità in ogni stazione di servizio che troviamo. Da queste parti due italiani a spasso con una Mini Clubman Cooper S non si vedono tutti i giorni. Tutti vogliono sapere da dove arriviamo ed alla nostra risposta riceviamo immancabilmente uno “woooow” di stupore e ammirazione. E’ la stessa cosa che ci dice il proprietario di un baracchino di hotdogs, quando si tuffa in una orgogliosa tiritera sulla sorella che è venuta in vacanza in Italia insieme al marito e le figlie. “Roma è bellissima”, mi dice convinto.
Arriviamo in serata a destinazione; alcune Mini sono già arrivate, altre sono ancora in viaggio. Ci ospita Green Bay, dove le statue più belle della città sono dedicate agli eroi del football. Si, perché qui i Packers sono la cosa più importante che c’è. I partecipanti al MTTS arrivano un po’ alla volta ed Andrew, un tipo un po’ nerd con gli occhiali da vista dalla montatura spessa, che mi spiega il perché. I movimenti dell’economia negli Stati Uniti possono determinare il successo o il declino di una città in pochi anni. E negli anni di crisi, gli abitanti di Green Bay si sono aggrappati all’unica cosa che avevano: la squadra. E’ anche grazie al football che la città ha tenuto duro, perché ha instillato negli abitanti un orgoglio che gli ha permesso di vedere la luce in fondo al tunnel. Saluto Andrew prima di lasciare la Title Town Brewery, birreria ricavata nella vecchia stazione ferroviaria dalla quale partiva il treno delle trasferte dei Packers e che oggi è una sorta di mausoleo alla memoria sportiva.
Da Green Bay a Minneapolis
In partenza da Green Bay faccio la conoscenza di Matt. Gira con la moglie nella sua roulotte di legno fatta a mano. Piccola, dentro c’è spazio solo per un letto a una piazza e mezza, ricorda i mezzi di Topolino e Paperino. Matt mi confida che nei giorni precedenti ha avuto qualche problemino tecnico, e se anche non mi racconta esattamente il motivo, mi confida che dovrà viaggiare lentamente. Però “c’è tutto quello che serve” ci tiene a precisare, compresa l’immancabile tv a led.
Il serpentone delle centinaia di Mini in partenza da Green Bay è affascinante, e questa volta riusciamo a rimanere con un gruppo nutrito di vetture per qualche ora. Durante il viaggio verso Minneapolis troviamo molte città graziose, con la strada principale impeccabilmente pulita dalla quale si dipanano vie che poco più in là danno nel nulla. Paesini da telefilm, con ristoranti e bar da telefilm, che non offrono null’altro se non una tranquilla vita nel midwest. Nessun mega centro commerciale, tanti concessionari d’auto con immancabile bandierone stelle e strice. E’ in questi posti che capisci come sono nate le vendite per corrispondenza, e di come Amazon possa essere il fornitore unico di qualsiasi cosa che non può essere comprata in loco. Un giudizio un po’ “tout court”, me ne rendo conto, ma la sensazione è di essere davvero nel bel mezzo del nulla.
Minneapolis è meno avvincente rispetto a Green Bay. Unita con Saint Paul nelle “Twin Cities” è un’area metropolitana da tre milioni e mezzo di abitanti. Cresciuto con il mito del “genio di Minneapolis”, mi accordo che di Prince non importa nulla a nessuno. Ogni mia citazione cade nel vuoto. Vado a dormire un po’ deluso, lo confesso.
Da Minneapolis a Sioux Falls
Il giorno successivo è l’ultima tappa che ci porterà a Soiux Falls. Un’altra colazione in compagnia dei folli amici proprietari di Mini: il numero di spille che sfoggiamo incomincia a suscitare curiosità e rispetto, come ci dice Gabriel. E’ un personaggio sulla settantina che gira con colori e arcobaleni sgargianti, e scritte “peace” un po’ dappertutto. Qualcuno ci ha detto che è un reduce del Vietnam; non so se sia vero o meno, ma decido di crederci. Gabriel sembra “vero” nella pacchianità del suo modo di farsi notare, è simpatico e si fa voler bene da tutti. Anzi, sembra che sia lui a conoscere tutti. Partiamo insieme a lui in direzione ovest. “Go west!”.
Questo Midwest però, non è così affascinante come l’Upper Peninsula e non fornisce spunti degni di nota. Ci divertiamo a viaggiare in gruppo con Gabriel e le altre Mini, in una colonna che aumenta fino ad una cinquantina di esemplari, per poi diminuire un po’ alla volta in vista della sosta pranzo. Troviamo un ristorante famigliare dove ci vuole poco per finire ancora una volta al centro dell’attenzione. “Italiani? Volete provare le nostre lasagne?” La figlia del titolare è sicura della proposta del giorno, noi un po’ meno, e preferiamo andare sulla classica bistecca. Ci rimane un po’ male, ma i complimenti finali per la torta fatta in casa sistemano tutto. Poco fuori, una bella sorpresa: due Oldsmobile, una Ninety-Eight Holiday Coupè del 1954 ed una Rocket 88 Coupè del 1949 con i loro due proprietari. Ci scambiamo gli sguardi di chi la sa lunga di automobili, e con cenni del capo ammiriamo le due veterane e l’iglesina nuova generazione.
Forse perché ci siamo abituati ai paesaggi, forse perché non c’è niente di particolare che possa catturare l’attenzione, il tempo si allunga e le miglia incominciano a pesare. Non fisicamente, perchè la nostra Clubman Cooper S si rivela come una gran turismo inaspettata. Sedili comodi, zero mal di schiena. Devo ammettere che il portapacchi non rientra nei miei canoni estetici, e se non ci fosse sarei più contento, anche perchè due valigie e due borse grandi trovano posto senza problemi nel bagagliaio. Mi piace giocare con il navigatore satellitare, dalla grafica curata. Allargo e zoommo la mappa per vedere le decine di strade parallele alla nostra. Mi ritrovo in quel limbo pomeridiano dove non accade nulla degno di nota. Sulla strada locale che stiamo percorrendo, incontriamo un paio di automobili in tre ore di viaggio. O meglio, c’è qualcosa che abbiamo sotto gli occhi da miglia e miglia: è uno sterminato campo di mais. Cerco di fare mente locale… “ma da quanto tempo lo sto costeggiando?” Non me lo ricordo, ma deve essere almeno un’ora. E quando mi accorgo che è passata un’altra ora, l’idea di mi sconvolge… E’ come se l’autostrada da Milano a Brescia fosse immersa in un unico, enorme, campo di mais.
A Sioux Falls i pellerossa non ci sono, ed ogni ristorante e bar della città è pieno di proprietari di Mini che si stanno scambiando le impressioni di viaggio. Anche i proprietari dei locali sono entusiasti per l’arrivo di nuovi clienti. Un avvenimento importante tanto da far scomodare l’anchorman di una tv locale. Mi dicono sia famosissimo, ma quando faccio per andare a salutarlo sparisce improvvisamente, così come svanisce la mia fama di gloria nella tv americana. Una piccola cascata a Sioux Falls racconta una storia di pionieri, di visionari con la loro centrale elettrica, di lavoro duro, ed oggi di uno di quei parchi così curati, con i prati così verdi da sembrare irreali.
Il viaggio è quasi concluso, e ne ho già nostalgia. Posti che non avevo ancora visto, persone che non ricontrerò, un po’ alla Willy Nelson. Ed è pazzesco pensare come le amicizie che nascono durante il Mini Takes The States, attraverso l’America che pochi europei conoscono, nascano grazie alla vettura meno americana che c’è. Ciao John, Nancy, Bridget, Matt, Gabriel e tutti gli altri pazzi scatenati che abbiamo incontrato sul nostro percorso. Ci rivedremo, chissà, nel 2018…