Ferrari Mythos: 30 anni per una supercar da sogno
Ci sono auto che si fissano per sempre nei desideri: la Ferrari Mythos appartiene alla specie. Il modello celebra il rapporto fra Pininfarina e la casa di Maranello.
La Ferrari Mythos compie 30 anni, ma li porta benissimo, a riprova della bontà di un progetto che ha saputo superare in modo brillante le insidie del tempo. Questa show car, presentata al Salone di Tokyo del 1989, nacque nel segno della bellezza, celebrando degnamente il felice connubio tra Ferrari e Pininfarina.
L’obiettivo era quello di creare un modello ispirato alle “rosse” da gara degli anni ’60, entrate dalla porta principale nella storia dell’automobilismo. Il risultato fu sbalorditivo, perché diede vita a una barchetta moderna e seducente, partendo dall’autotelaio della Testarossa, che donò alla Mythos anche il motore centrale a 12 cilindri contrapposti da 5 litri, con 390 cavalli di potenza. Minore il peso rispetto alla donatrice, con un valore alla bilancia di 1250 chilogrammi, agevolato dall’ampio uso di fibra di carbonio.
Dal punto di vista stilistico la Ferrari Mythos si presenta allo sguardo con forme scultoree di grande presa, che entrano facilmente nel cuore. Tutto è stato modellato con estrema cura, per regalare una miscela preziosa di sportività ed eleganza. Il merito è di Pietro Camardella, autore del design per Pininfarina, che ha saputo interpretare il tema con sublime grazia.
Nel suggestivo gioco dialettico si esalta l’intersezione dei volumi, in un quadro generale dove le ampie prese d’aria laterali e il possente specchio di coda si coniugano brillantemente al frontale spiovente, per un’alchimia stilistica di grande scuola. Il baffo anteriore scorrevole e l’alettone posteriore mobile concorrono efficacemente alla causa della deportanza, fondamentale su auto di così alto spessore prestazionale. La Ferrari Mythos è una dream car legata alle Sport degli anni romantici, ma è stata anche un esercizio creativo lanciato verso il futuro. Il progetto ha centrato in pieno i suoi obiettivi, non solo per gli importanti riconoscimenti ottenuti nel corso del tempo.
Oggi questa creatura, giunta al trentesimo compleanno, fa sognare esattamente come al momento della presentazione. Ciò la dice lunga sulle sue doti estetiche. Per approfondire la conoscenza del modello non c’è nulla di meglio che ripercorrerne le origini con le parole di Pietro Camardella per Autoblog.it.
Ferrari Mythos: la storia narrata da Camardella
La Mythos nacque in seguito alla volontà di riprendersi dal tiepido riscontro della HIT 88, su base Lancia, che voleva prefigurare la Delta del futuro. Lo stringato briefing comunicò la volontà di pensare una show car basata su meccanica Ferrari, stop.
Tutto l’ufficio stile si mise d’impegno, ognuno elaborando personalmente più soluzioni, come del resto feci io, che tralasciai solo la tipologia “trattore”. Per il resto le provai tutte, partendo dalla meccanica Testarossa, con l’obiettivo di eliminare la presenza della grossa griglia anteriore, alla luce del fatto che in realtà i radiatori erano due disposti lateralmente.
Fra le tante proposte, colpì la dirigenza quella da me denominata P7, per richiamare l’ultima all’epoca di Pininfarina, appunto la P6 del 1968 firmata da Leonardo Fioravanti. Ripresi la tipologia della “barchetta” da competizione priva di capote, per esprimere senza compromessi “la massima aspirazione dell’uomo in fatto di automobili”. Tema che tanto mi aveva colpito a 10 anni, nel 1967, quando nacque la Montreal da parte di Bertone per Alfa Romeo, invitata dall’organizzazione dell’Expo di Montreal (unica al mondo) a rappresentare l’automobile nella prestigiosa cornice espositiva.
Ma l’ispirazione non si fermò al claim, coinvolgendo anche una barchetta del passato: la Maserati 61 carrozzata Drogo, tra le mie preferite da ragazzino, da cui trassi spunto soprattutto per il particolare raccordo tra la “vasca” abitacolo ed il cofano posteriore, ma anche per l’andamento dinamico generale, che trovavo molto affilato.
Con la P7 volevo superare la concezione dell’automobile ottenuta per piani ortogonali, cifra caratteristica dell’evoluzione negli anni settanta che, per quanto ammorbidita nei raccordi negli anni ottanta, era rimasta legata ai volumi integrati. Alla ricerca di un nuovo linguaggio formale, impostai la ricerca sul recupero della plasticità scultorea del passato con un’innovativo modulo espressivo basato sull’articolazione dei volumi, scomponendoli e ricomponendoli con raccordi negativi, per imprimere un nuovo dinamismo.
Fu determinante la disposizione dei radiatori laterali, che, per convogliare l’aria, mi suggerirono l’invenzione formale dei due volumi che si compenetrano senza soluzione di continuità, come l’anello di Moebius. Il blocco anteriore affilato e aerodinamico entra nel posteriore possente e largo, con il motore che spinge tra l’incrocio dei due volumi gli sgusci naturali che convogliano l’aria ai radiatori. Al centro, l’abitacolo accogliente e protetto. L’andamento generale ricordava le Ferrari del passato ma ne aggiornava gli stilemi e ne introduceva di nuovi. I parafanghi anteriori erano muscolosi ma tesi; il classico andamento ad onda risultava dall’incrocio dei volumi in fiancata; l’alettone posteriore integrato si armonizzava al profilo laterale.
Il family feeling nel frontale era affidato all’iconizzazione del “trittico”, che avevo introdotto nella F40, ispirandomi alla 250 GTO del 1960. Come su questa, era ricavato sul piano del cofano ed era ottenuto dall’allineamento delle piccole prese laterali sotto i fari e dall’ombra proiettata dall’alettone passante. I fari richiamavano, con un disegno attualizzato, quelli carenati degli anni sessanta. Nello specchio di coda, pur se con forme innovative e con un disegno inedito, richiamai il modulo estetico della Dino, che presentava la coda tronca con il perimetro continuo chiuso su se stesso a sezione negativa.
La proposta piacque alla dirigenza che la scelse tra tutte e mi incaricò di svilupparla per realizzare un modello in scala 1:1. Piacque anche all’ingegnere Sergio Pininfarina: solo nello sviluppo ebbe qualche momento d’incertezza, alquanto sorpreso alla prova reale delle ardite soluzioni formali che, a suo pensare, erano fuori dalla tradizione Pininfarina. Col nome P7, inizialmente scelto, cominciò lo sviluppo del progetto. Realizzai il piano di forma 1:5, da me firmato sia come capo commessa che come disegnatore sull’identificativo di tavola, pubblicato in formato ridotto da Auto Capital.
Benché ne curai personalmente lo sviluppo, inevitabili furono alcune interferenze direttive, tipo l’istallazione di due fanali tondi sul frontale, con un effetto posticcio. Mentre altre modifiche furono frutto di compromessi di realizzazione, come avvenne per l’alettone passante sul frontale, pensato da me anche come flap frenante, che fu abbandonato per difficoltà costruttive, contro la mia volontà, in quanto oltre alle funzioni aerodinamiche, iconizzava il trittico family feeling all’epoca. La scelta da una parte attirò sulla Mythos critiche sulla mancanza di familiarità Ferrari, dall’altra ebbe il merito di “preparare” e anticipare il frontale della 360 Modena.
Un’altra modifica, per ottenere i benefici aerodinamici, riguardò l’alettone posteriore, pensato fisso, che sin dalle prime prove in galleria dimostrò di non lavorare coperto dal flusso del parabrezza. La prima soluzione da me proposta era quella di separare il tratto di alettone vero e proprio, utilizzando due pantografi nelle pinne, ma fu ritenuta una soluzione troppo complessa e mi fu richiesto di semplificare con un supporto centrale, per contenere un pistone elevatore.
Disegnai quindi una pinna centrale che si inseriva perfettamente nel disegno originale, sfruttando la partizione verticale di mezzeria che si allineava già al disegno dello scarico binato verticale. Purtroppo un altra decisione “superiore” sistemo gli scarichi ai due lati dello sfogo dello scivolo carenato di coda, senza valutare l’effetto “vampirescomorfo” che ne risultò. In realtà in mancanza di un adeguato pistone sul mercato, l’elevazione fu risolta efficacemente in opera, dai bravissimi artigiani del reparto “greggio” guidati Da Vittorio Coassolo, che si inventarono un cinematismo utilizzando le guide di una cassettiera, una vite senza fine ed un motorino tergicristalli! Alchimie tecnico artigianali.
L’ultima modifica rilevante, ma a livello di comunicazione, fu la denominazione Mythos, inventata da Lorenza Pininfarina, cui va pure il merito di un’efficace e avanzatissima campagna globale con articoli sulla stampa, monografia, videoclip, passaggi in trasmissioni televisive come la mitica “Non solo Moda”: un atto d’amore verso il modello!
Il bilancio finale fu sicuramente a mio favore, rispetto alle modifiche/interferenze della media dei progetti, l’essenza della Mythos fu salva e l’apprezzamento del pubblico ne suggellò la bontà. Appena presentata al Salone di Tokio 1989 vinse il Golden Marker Trophy e successivamente il Car Award di Auto & Design. La desiderarono in tanti, solo due riuscirono ad averne, purtroppo…ma questa è un altra storia…all’italiana!
Pietro Camardella si racconta
Disegnare è un mio talento naturale che, coltivato ed educato, mi ha permesso di dare forma alle mie idee. Mia madre mi diceva sempre che un giorno, più o meno a 4/5 anni di età, per andare a fare la spesa, mi aveva lasciato a casa a disegnare come al solito i cavalli della battaglia di Anghiari di Leonardo (ne ero rimasto suggestionato dopo aver visto la copertina di un album da disegno) e mi aveva ritrovato a disegnare automobili, cosa che da quel giorno in poi ho sempre continuato a fare.
Riproducendo prima quelle che, mano a mano, venivano lanciate in quegli anni di grosso fermento creativo dei grandi carrozzieri italiani. In particolare la Lamborghini Miura di Bertone, che letteralmente mi fece impazzire: la disegnavo ovunque, anche con pastelli a cera in forma di murales sul muro di fronte la scuola media. Poi al liceo artistico cominciai a pensare a creazioni originali, carezzavo persino l’idea di fondare una mia casa automobilistica sul modello di Ferruccio Lamborghini, che avrebbe avuto un ippocampo marino.
Sono sempre stato vocato all’innovazione. Per me ogni nuovo progetto per definizione deve essere innovativo, forse per essere cresciuto negli anni dello sviluppo economico del nostro paese, quando dai pochi mezzi d’informazione arrivava il messaggio che era in atto un progresso tecnologico inarrestabile. Erano gli anni dello sbarco sulla Luna.
La mia aspirazione divenne quella di lavorare da Bertone, per disegnare le Lamborghini e finire a guidare un centro stile di vetture sportive. Per attuarla, nel 1978 decisi di progettare e disegnare una vettura 4×4 ad alte prestazioni, basata sulla meccanica della Countach, dove avevo individuato l’opportunità di sviluppo dell’idea, in virtù dell’originale impostazione di quel modello del “toro” a trazione posteriore. Mi accinsi alla sfida con l’approccio metodologico che mi derivava dagli studi di architettura.
Il ritrovamento di due numeri di Style Auto, con allegato il piano di forma della Alfa Romeo Montreal di Bertone, mi permise di mutuare le nozioni di base e di replicare il processo di sviluppo a partire dai primi schizzi, passando alla realizzazione dei “figurini” fotorealistici, fino a tradurre tridimensionalmente l’idea iniziale, grazie alla citata metodologia del piano di forma, esattamente come avveniva in architettura, mediante proiezioni ortogonali e sezioni. Spedii due volte alla Bertone questo progetto, insieme ad altro materiale, per chiedere una possibilità, prima nel 1978 e poi nel 1980, ma non ebbi mai risposta.
Come sono approdato alla Pininfarina
Nel 1984 il lavoro di architettura a Salerno legato alla ricostruzione post terremoto 80 terminò, quello locale stagnava, provai con la Pininfarina, per primo fui valutato da Emanuele Nicosia che mi segnalò a Leonardo Fioravanti, poi seguirono i colloqui con Aldo Brovarone.
Quando mi presentai in Pininfarina, l’autoapprendimento del piano di forma mi fu di grande aiuto, mentre l’idea tecnologica, per quanto mi premurai di specificare possibile anche su meccanica Ferrari BB, fu liquidata con sufficienza da uno degli esaminatori, un ingegnere, che si espresse in questi termini: ” È una soluzione ingegneristica, noi qui facciamo stile”. Peccato, sarebbe stato un bel colpo, se consideriamo che sui modelli di serie la prima apparizione fu nel 1980 sull’Audi Quattro, ma per avere un’applicazione prestazionale bisognò aspettare il 1991, sulla Bugatti EB110, anche se ottenuta con uno schema diverso, non a caso con Paolo Stanzani inizialmente a capo progetto. L’ingegnere bolognese in una intervista confermò che la Countach l’aveva pensata proprio così.
Ma per entrare in Pininfarina fui sottoposto a una dura selezione prima dall’esterno, poi con tre mesi di stage. Infine fui assunto con contratto nazionale con tre mesi di prova: in tutto nove mesi per entrare di ruolo a settembre 1985. Fui subito operativo, con una soluzione che fu scelta da Leonardo Fioravanti per le cinque proposte della prima stesura del progetto F116, che mi porto anni dopo al disegno della definitiva 456 GT.
Oltre che nel trasportation, mi affermavo anche sui progetti di industrial design. Ma il meglio lo raggiungevo senza sforzo nelle automobili ad alte prestazioni, in particolare le Ferrari, cinque quelle conosciute. La prima fu la F40 nel 1986, che sviluppai direttamente con la supervisione dell’anziano capo ufficio Aldo Brovarone, successivamente nel 1987 fui incaricato d’ufficio del restyling della Testarossa, per la 512 TR, seguirono la Mythos nel 1988, la 456 GT nel 1989 e la F50 nel 1990, tutte rigorosamente avviate allo sviluppo con il piano di forma 1:5 disegnato personalmente.