Fiat 600: il 9 marzo 1955 veniva presentata la vettura che ha motorizzato l’Italia del “boom”
Arrivata in piena epoca di ricostruzione postbellica, la “tuttodietro” torinese è capostipite di una filosofia di gamma giunta fino al Terzo Millennio.
“Quattro ruote indipendenti, trazione posteriore che elimina albero e retroponte. In quattro persone vi si può correre a cento chilometri l’ora”. Annuncia così, declamata dall’inconfondibile cadenza di Guido Notari, “speaker” ufficiale dell’Istituto Luce, la sequenza filmata che il 9 marzo 1955 raccontava al grande pubblico la presentazione ufficiale di Fiat 600, avvenuta quel giorno al Salone di Ginevra.
Prese così il via la storia dell’”utilitaria” italiana che di lì a pochissimo avrebbe caratterizzato la motorizzazione nazionale e avrebbe guidato (letteralmente) il “boom” economico italiano. Un decennio che, con i suoi “contro” ma anche con i suoi “pro”, contrassegnò un’epoca indimenticabile per la storia del nostro Paese, e che si radicò in maniera così profonda nel contesto sociale da emergere ancora oggi in molti discorsi quotidiani.
Lavorare, lavorare e lavorare
Sono trascorsi ben sessantasette anni da quel 9 marzo 1955: l’Italia era in piena fase di ricostruzione dopo il tragico quinquennio bellico. Dappertutto c’era bisogno e voglia di rimboccarsi le maniche; l’economia iniziava a “tirare” come non mai (soprattutto grazie alla grande industria, che richiamava centinaia di migliaia di lavoratori provenienti da ogni parte del Paese alla volta del “triangolo industriale” ai cui vertici c’erano Torino, Milano e Genova: tutto questo, a discapito del settore dell’agricoltura che, difatti, veniva sempre più lasciato da parte… ma a quell’epoca non se ne curava nessuno: occorreva lavorare, costruire, “fare” nel senso più ampio del termine).
Aurelia B24: l’”altra italiana” a Ginevra 1955
Al “Palais” di Ginevra, non c’era solamente Fiat 600 a polarizzare l’attenzione dei visitatori: sulle rive del Lago Lemano, faceva in effetti bella mostra di se la novità Lancia Aurelia B24 Spider. Come dire: i due opposti della produzione nazionale di serie. Ad accomunare le due vetture che debuttarono al Salone di Ginevra 1955, c’era tuttavia ben poco: solamente il fatto di possedere la scocca portante, il raffreddamento ad acqua, il cambio a quattro marce, il volante e… quattro ruote. Ed il luogo di nascita: Torino. Per tutto il resto, Aurelia B24 e 600 non avrebbero potuto essere più diverse fra loro.
“Per voi, neoautomobilisti”
E del resto così doveva essere: una, la “Spider” di Lancia, nasceva come ulteriore segno distintivo dell’epoca d’oro del grande Design industriale italiano (una stagione, anch’essa giunta celebratissima fino ai giorni nostri, che era stata sancita dalla nascita del premio “Compasso d’Oro” istituito l’anno prima, nel 1954) e si poneva come “proposta capriccio” di un’alta borghesia che già disponeva da lungo tempo di un’automobile nel proprio garage.
L’altra, la “nostra” piccola Fiat 600, era destinata ad accogliere sotto il suo gibboso “tetto” quelle quattro persone che la dirigenza Fiat (guidata da Vittorio Valletta) esigeva. E che non avevano mai posseduto un’autovettura (fatta eccezione per quelli che già “giravano” con la Topolino), anzi in buona parte arrivavano dalla “prima ondata” della motorizzazione, quella che nel primo dopoguerra aveva dato un ruolo di protagonista ai micromotori da applicare alla bicicletta (Cucciolo, Mosquito e, dalla Francia, il VéloSolex), alle “motoleggerissime” (il Moto Guzzi 65 “Guzzino”) e, soprattutto, agli scooter (Vespa e Lambretta su tutti): mezzi di locomozione che di fatto avevano provvisto l’Italia della ricostruzione con… un motore per potere spostarsi più comodamente e più velocemente.
Applicò le regole fondamentali del Design
Anche la piccola Fiat 600 fu, tuttavia, un prodotto di design. Funzionale all’utilizzo che le si chiedeva, dunque in possesso di un preciso rigore formale, l’allora “segmento A” torinese (oggi verrebbe definita così) nasceva come risposta a precisi bisogni di mercato: corpo vettura supercompatto (poco più di tre metri di lunghezza), essenziale, maneggevole e comodo, anche per le esigenze di un viaggio, grazie alla possibilità di sistemare alcune borse all’interno del vano anteriore, in una “nicchia” ricavata fra i sedili posteriori ed il vano motore e, abbattendo il divanetto, fare spazio a diverse valigie. E se si aveva bisogno di caricare di più, con un portapacchi sul tetto l’abitacolo era pronto ad accogliere tutta la famiglia.
Non definiamola “vetturetta”…
Fra l’altro, proprio nell’immediata vigilia del Salone di Ginevra 1955, Bmw aveva presentato la “250”, sorella tedesca (anzi, bavarese) della rivoluzionaria – e italianissima – “Isetta” che due anni prima, in quel di Bresso dove aveva sede la Iso di Renzo Rivolta, aveva inaugurato l’era delle microcar “nazionali” (segmento immediatamente successivo agli scooter) che, già nell’immediato dopoguerra, era stato caratterizzato da numerose quanto effimere proposte. In Germania, la “Bmw-Isetta” avrebbe conosciuto un gradimento superiore rispetto alla “nostra” biposto-bicilindrica a due tempi con ingresso dalla zona anteriore della vettura, proprio per ragioni di ottimizzazione di spazio.
Tuttavia serviva “qualcosa” di più per la tanto auspicata motorizzazione di massa alla quale anche il mondo politico non era estraneo (si era, è bene ricordarlo, in fase di realizzazione del primo tratto dell’Autostrada del Sole che una volta completata, nel 1964, avrebbe davvero collegato, dal punto di vista automobilistico, il nord con il sud del nostro Paese), e questo fu subito chiaro.
Di più: era già in fase di sviluppo. Le vetturette ultra-utilitarie “tipo Isetta”, per quanto simpatiche e adatte all’impiego quotidiano, mancavano di diversi elementi che le avvicinassero ad un concetto più ampio di “automobile”: adeguata capacità di trasporto bagagli, spazio per quattro persone, raffreddamento ad acqua.
“Figlia” della Topolino…
Una “utilitaria formato famiglia”, dunque. Questo, in effetti, Fiat 600 si voleva che dovesse essere, e così volle Vittorio Valletta quando diede mandato all’ingegner Dante Giacosa di affrontarne la progettazione, già nel 1951. Il suo “albero genealogico” parlava chiaro: fra le sue progenitrici più vicine nel tempo, c’era la storica Fiat 500, nata nel 1936 ed immediatamente ribattezzata “Topolino” dagli italiani – sebbene questa denominazione non fu mai utilizzata negli austeri uffici Fiat – per via del simpatico musetto dal quale spuntavano, come attoniti, due grandi fari che ricordavano in effetti le orecchie dell’astuto roditore.
Il fatto innegabile era che la pur graditissima “Topolino”, prodotta in tre serie (500A, 500B e 500C) dal 1936 al 1955, non garantiva il comodo trasporto di quattro persone: a questo, insieme ad una discreta capienza di carico, provvedeva la “familiare” Fiat 500C “Belvedere”, che proprio per questo fu il modello più venduto nell’ultima generazione della stirpe “Topolino” tanto da restare in listino per diversi mesi dopo la fine produzione della 500C “berlina”.
Inoltre, la sua progettazione era ormai vetusta e antieconomica, per quanto in un ventennio le linee di montaggio fossero da considerare… più che ammortizzate: il telaio era ancora a longheroni, il motore, sistemato all’anteriore, era collegato alle ruote posteriori per mezzo di un albero di trasmissione, cosa che aumentava il peso del veicolo, ne complicava la meccanica e sottraeva spazio per via della presenza del tunnel di trasmissione.
… In chiave ovviamente “modernista”
In buona sostanza: occorreva modernizzare le proposte di gamma. E proporre agli italiani una vettura che portasse in dote, ovviamente aggiornate, le migliori caratteristiche della cugina più anziana “Belvedere”. Ecco, quindi, la scocca portante, il cambio a quattro rapporti di cui tre (“prima”, “seconda” e “terza”, sincronizzati), ed ecco le sospensioni a ruote indipendenti.
Il motore da 633 cc a quattro cilindri raffreddato ad acqua, collocato “a sbalzo” per dare più abitabilità possibile e capacità di trasporto bagagli in poco più di tre metri di lunghezza. Era, per intenderci e a titolo di paragone, la “risposta italiana” ad un’altra utilitaria di grande successo nel suo Paese (e di discreto gradimento anche da noi, considerato che all’epoca le importazioni dall’estero erano sottoposte ai dazi doganali): Renault 4CV, inizialmente concepita dai tecnici della “Marques à Losanges” durante l’occupazione tedesca della Francia nella Seconda Guerra mondiale e che restò in produzione fino al 1961, per cedere il testimone all’altrettanto leggendaria R4.
Più di 200 miliardi di lire per la sua messa in produzione
Che Fiat 600 sarebbe stata un punto fermo nella storia dell’azienda – anzi: un modello spartiacque fra due distinte epoche – lo dimostra l’ingente il programma di ammodernamento degli impianti di Mirafiori, per i quali Fiat mise in atto un monte-investimenti complessivo di 200 miliardi di lire dell’epoca. Diverse decine di miliardi vennero impiegate per la realizzazione delle linee di montaggio di Fiat 600, in modo da assicurare ai mercati volumi di produzione adeguati al quantitativo di esemplari che si intendeva immettere in circolazione.
La compravi a piccole rate
Innovativo fu anche il metodo di vendita. “Nuovo” nel panorama automobilistico di allora, per quanto ben “collaudato” da Fiat. Per mettersi al volante di una Fiat 600 non occorrevano anni di risparmi, sacrifici e sudore della fronte: era sufficiente un minimo apporto in contanti, e affidarsi all’acquisto rateale. Oggi c’è FCA Bank, società finanziaria creata nel 2015. Molto tempo prima (era il 1925, e l’occasione fu il debutto della prima “utilitaria” torinese, la Fiat 509 del 1925), era stata creata la SAVA, sigla che stava per Società Anonima Vendita Automobili, all’inizio indipendente fino a quando, nel 1931, Fiat ne acquistò l’intero pacchetto azionario.
In poche parole (e un po’ di cambiali): chiunque poteva permettersi l’automobile. Proprio come avvenne, negli stessi anni, con il televisore, il frigorifero e la lavatrice. Un po’ di “farfalline” da firmare, e si entrava nella modernità. Giovani e meno giovani, impiegati e operai, casalinghe e studenti, uomini e donne: nessuna distinzione sociale.
E tale fu il “fenomeno” Fiat 600 che anche il cinema lo celebrò, come dimostra – citiamo solamente un esempio: una gustosa e pungente satira di costume – un episodio de “I Mostri”, film-culto diretto da Dino Risi nel 1963, in cui Ugo Tognazzi, tranquillo padre di famiglia, telefona alla moglie per comunicarle l’epocale acquisto della vettura salvo, non appena uscito dalla concessionaria con la 600 nuova di zecca e ancora con la targa di cartone (quelle provvisorie che si usavano un tempo), avventurarsi immediatamente per i controviali e… “caricare” una prostituta.
Quasi 5 milioni di esemplari nel mondo!
Il successo di Fiat 600 resterà per sempre, anche se la sua produzione, tutto sommato, non è durata moltissimo: solo 14 anni, dal 1955 al 1969 (con gli ultimi esemplari venduti nel 1970 ed un’ulteriore rimanenza immatricolata all’inizio del 1971), che bastano a rendere la Fiat 600 una vera icona del Novecento italiano, nell’industria come quotidiano.
All’epoca del suo debutto costava 590.000 lire (nel 1955, il salario medio di un operaio si aggirava sulle 50.000 lire), e nel corso di quei quasi 15 anni dagli stabilimenti Fiat Mirafiori di Torino ne uscirono circa 2 milioni e 600.000 esemplari. E la produzione non si fermò all’ombra della Mole, ma si estese alle linee di montaggio in Spagna (fu il modello-simbolo di Seat per lungo tempo), Germania, ex Jugoslavia (a marchio Zastava), Argentina e Cile. Nel complesso, gli esemplari circolanti nel mondo arrivarono ad essere quasi 5 milioni.
Protagonista anche nelle competizioni, con le “derivate” Abarth
Leggendarie, anche perché giunte fino a noi non solamente nei racconti di chi ha più di un capello grigio ma proprio perché tuttora sotto gli occhi di tutti, le imprese sportive di Fiat 600 e delle sue “derivate” Abarth. Una lunga storia che iniziò subito, e nella vetrina più importante per gli appassionati italiani: la Mille Miglia del 1955, con l’allora “utilitaria” nuova di zecca che contribuì a riempire l’elenco dei partenti (ben 44 gli esemplari iscritti, ad inserirsi tra le “reginette delle più piccole” Fiat 500C e le “esotiche” Renault 4CV).
Da allora, e per un ventennio, Fiat 600 fu protagonista nelle classi di cilindrata inferiore: prima 750, con la “cassetta di trasformazione” Abarth, e successivamente 850 (con le TC e TC Nurburgring) e 1000, ovvero la mitica TC omologata in Gruppo 2 ed in Gruppo 5 che fece man bassa di titoli nelle gare in salita e nel Turismo, ufficialmente fino al 1976 per scadenza di omologazione, e poi negli slalom e nelle gare Club, per poi approdare con pieno diritto nelle gare per auto storiche. La “filosofia” 600 servì anche come base di partenza per lo sviluppo delle magnifiche piccole coupé Abarth 1000 che per tutti gli anni 60 fecero la parte del leone nella rispettiva classe della categoria GT.
La sua filosofia è arrivata fino ai giorni nostri
Dall’origine progettuale della “gibbosa” Fiat 600 derivò una stirpe di vetture che oggi apparterrebbero al segmento A (“citycar”) e che all’epoca venivano definite “utilitarie”: Fiat 850, Fiat 127, Fiat Panda; e, all’estero, Simca 1000, rimasta in produzione per diciassette anni (tra la fine del 1961 e l’agosto 1978, anche lei con le sue brave “evoluzioni dello Scorpione”: le berline Simca-Abarth 1150 e le coupé Abarth-Simca 1300, 1600 e 2000 GT) e che ottenne un grandissimo successo di vendite.
Per chiudere questo racconto, ci sta aggiungere che la Rai, che all’epoca del lancio della 600 ancora non passava pubblicità televisiva come la conosciamo oggi, trasmise per l’occasione un cortometraggio sulla nuova nata: un volano mica male, già in quegli anni, per “spingere” gli italiani a comprare una Fiat 600. Vi suggeriamo un estratto.
E pensare che qualcuno era convinto che la 600 inizialmente fosse figlia di un intervento per ovviare i ritardi di presentazione della successiva 500, quando in realtà si rivelò un progetto ragionato, figlio di un lungo studio e di vari progetti alternativi, iniziato nel 1945 e spinto – pensate un po’ – dal governo francese e che poi ha visto la nascita della Fiat 600, una delle auto da Oscars, come le chiamiamo noi, una di quelle che non dimenticheremo mai e che resteranno per sempre nella nostra memoria.