Transizione elettrica: a rischio 500 aziende italiane della filiera automotive
Imprese e rappresentanze sindacali sono concordi: occorre un immediato programma governativo che favorisca la riconversione.
Ma di quale “rivoluzione e-mobility” si parla, se in Italia migliaia di lavoratori sono stati dichiarati in esubero e decine di aziende dell’indotto si dichiarano in difficoltà, se milioni di utenti si trovano incolpevoli a dovere far fronte all’aumento delle bollette energetiche e devono comunque continuare a pagare (perché non c’è altro modo) le accise sui carburanti, mentre il potere d’acquisto si assottiglia? C’è, insomma, una situazione allarmante che ha continuato ad essere ben presente, anche nelle recentissime giornate in cui i riflettori della politica erano per lo più rivolti sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Ma andiamo con ordine.
La previsione (2019) di Bombassei
Giusto tre anni fa (era la fine di gennaio del 2019), Alberto Bombassei – “numero uno” di Brembo – aveva, in una dichiarazione raccolta dai taccuini de IlSole 24Ore, osservato che “C’è grande interesse intorno all’auto elettrica, tuttavia nessuno tiene conto del suo impatto sociale. Se in Europa si smettesse di produrre auto a benzina e diesel, si potrebbe arrivare a perdere fino a un milione di posti di lavoro”.
La storia recente è tutt’altro che allegra
Da quell’osservazione, che l’analisi attuale può a buon diritto definire profetica, molta acqua è passata sotto i ponti. Diversi “big player” del comparto automotive hanno ulteriormente accelerato le proprie strategie di sviluppo in tema di mobilità a zero emissioni allo scarico; è arrivata la pandemia da Covid che continua a tenere banco; c’è stata, poi, e c’è ancora, la crisi delle materie prime (“emergenza-chip in primis). E c’è una situazione di difficoltà che riguarda diverse realtà della filiera. “Last but not least”, la Cop26 di Glasgow ha messo in luce le perplessità (da parte dei rappresentanti di diversi Governi nazionali e fra i “piani alti” di molte Case costruttrici) sulla deadline al 2035-2040 di messa al bando dei motori endotermici.
Un cambio di direzione repentino e senza guide concrete
Un servizio de Il Giornale, che riferisce sulle rilevazioni di “Una fonte industriale”, indica come in Italia ci siano, attualmente, 450-500 aziende specializzate in componenti automotive, e che danno lavoro complessivamente a circa 70.000 persone, in seria difficoltà. E la situazione, se non intervengano misure di aiuto “decise e sostanziose”, è destinata a peggiorare. La causa principale, è il percorso – più imposto a livello politico che dettato da reali esigenze collettive – di repentina svolta verso la mobilità elettrica.
Si tratta, considera il quotidiano, di un’evoluzione troppo rapida: lo evidenziano alcune osservazioni che giungono dallo stesso mondo della politica così come dalle rappresentanze sindacali. È notizia di fine gennaio, ad esempio, l’annuncio di 700 esuberi comunicato da Bosch di Bari all’indirizzo della Regione Puglia, che va ad aggiungersi – per citare solamente gli esempi (purtroppo) più eclatanti – alle difficoltà Marelli (550 i dipendenti in esubero) ed a Vitesco (750 addetti “di troppo”).
Bosch Bari, Confindustria Puglia: “Servono politiche industriali adeguate”
Come messo in evidenza da varie fonti di stampa, la situazione dello stabilimento Bosch di Bari è sintomatica di uno stato di cose nel quale occorre un sostegno politico adeguato: “La transizione verso l’auto elettrica ha avuto un’accelerazione troppo repentina, che sta schiacciando tutta l’industria automobilistica. La difficile prospettiva rappresentata da Bosch a Bari è conseguenza di questa veloce trasformazione del mercato e di politiche europee drastiche, che penalizzano l’Italia più di altri Paesi, perché l’Italia è la seconda realtà manifatturiera d’Europa – dichiara Sergio Fontana, presidente di Confindustria Puglia, di fronte alla notizia dei 700 esuberi annunciati nella filiale barese del colosso hi-tech. “Dobbiamo attrezzarci per cavalcare il cambiamento – prosegue Fontana – Bosch, in questo senso, sta facendo la propria parte: in appena quattro anni ha messo a punto sette nuovi prodotti, ed è pronta ad intraprendere una coraggiosa riconversione. Come sostegno, tuttavia, Bosch deve poter contare su politiche industriali adeguate”. Da qui la richiesta, all’indirizzo della Regione, di attuare insieme a Confindustria ed ai sindacati tutte le strategie possibili per “Conciliare riconversione e sostenibilità sociale; soprattutto, chiediamo a Regione Puglia di sottoporre la questione al Ministero dello Sviluppo Economico per individuare una strategia nazionale di riconversione urgente, e misure straordinarie per Boch stessa e per l’intero comparto automotive nazionale, alle prese con una crisi epocale”.
Fiom-Cgil: “Si rischia un effetto domino rovinoso”
La presa di posizione dei sindacati, chiamati in ballo direttamente, parla chiaro: Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil, ed il segretario nazionale Michele De Palma sottolineano, in una nota raccolta da Borsa Italiana, che “È ora di riprendere il tavolo nazionale sul settore automotive, e che ci siano confronti singoli alla presenza del presidente del Consiglio, dei ministri competenti, degli amministratori delegati delle multinazionali del settore (Stellantis, Marelli, Bosch, Vitesco solo per indicare alcune fra le situazioni critiche), insieme ai sindacati per confrontarsi sulle azioni strategiche da compiere per sostenere ricerca, sviluppo, produzione di auto e componenti dalle batterie ai semiconduttori”. “Rischiamo l’avvio di un ‘effetto domino’ che potrebbe far perdere al nostro Paese un intero settore industriale se non ci saranno interventi straordinari e urgenti che perseguano obiettivi chiari”. La “ricetta” di salvaguardia dell’industria e dell’occupazione secondo Fiom-Cgil, sta nell’obiettivo di impiego della capacità produttiva: “Un milione e mezzo di auto di nuova generazione. Senza questo obiettivo industriale e con i volumi ridotti del piano Stellantis in essere, in breve tempo perderemo la componentistica e i suoi occupati con una delocalizzazione della componentistica che rischia di impattare anche su stabilimenti in termini di occupazione’ e quindi ‘occorre un piano che intervenga con risorse straordinarie per sostenere la transizione industriale garantendo l’occupazione”.
Fim-Cisl: “Necessarie politiche di intesa”
Dal canto suo, Roberto Benaglia, segretario generale Fim-Cisl, indica in un intervento che la transizione nella quale l’intero settore automotive è coinvolto necessiti di politiche nuove, diverse, e industriali prima che di carattere occupazionale: “Non possiamo pensare di continuare ad affrontare, come proposto dal Ministero dello Sviluppo Economico, le vertenze una ad una: è necessario dare un disegno unico d’intervento sull’intero settore e quelli ad esso collegati, un lavoro questo, per il quale serve un tavolo di confronto tra parti sociali e governo. In quest’ottica ci rivolgiamo proprio al governo per sollecitarlo ad intervenire sulla principale questione industriale del Paese per i prossimi anni”. “Abbiamo bisogno – prosegue Benaglia – di strumenti nuovi e politiche di accompagnamento e sostegno tra incentivi e riconversioni produttive e di nuove competenze che siano adeguate alla sfida che abbiamo davanti. Il tempo corre e non va sprecato. Queste nuove politiche per l’automotive devono trovare spazio, come sta avvenendo in altri Paesi europei, sia nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che in nuovi progetti di politiche attive e fonti di finanziamento mirate. Nei prossimi giorni, tra Fim, Fiom, Uilm ed anche nel rapporto con le parti datoriali vogliamo trovare ulteriori proposte e momenti di convergenza”.
Tenere presenti anche i combustibili alternativi
Il servizio de Il Giornale riporta inoltre un’affermazione dell’eurodeputato forzista (Ppe) Massimiliano Salini, secondo il quale “Il bando dei motori endotermici nel 2035 consegnerebbe di fatto la filiera automotive europea alla dipendenza dalla Cina che produce l’80% delle batterie a livello mondiale”. “Anche se si concede il massimo sostegno ai programmi delle nuove Gigafactory europee, le stime della Commissione UE indicano che nel 2035 non si arriverebbe a coprire che il 7% del fabbisogno di accumulatori UE – prosegue Salini – Per questo chiediamo di procedere sull’indirizzo della neutralità tecnologica, a patto di includere nel ‘pacchetto’ climatico anche gli investimenti sui combustibili alternativi”.
Gli analisti: “15 milioni di nuovi occupati nel 2050, ma bisogna fare fronte comune”
Un’analisi McKinsey sulle criticità di una transizione gestita male o addirittura non gestita, riporta ancora Il Giornale, riferisce che il raggiungimento di un traguardo a zero emissioni nette “Dipenderà dall’impegno di imprese, Governi e singoli individui in tutto il mondo, e richiederà un cambio di mentalità a trecentosessanta gradi che riguarderà anche le modalità con le quali ci si fa trovare preparati a fronteggiare incertezze e rischi a breve termine, agire in modo più deciso facendo fronte comune e con l’ingegno, ed ampliare gli obiettivi di pianificazione e investimenti”, osserva Marco Piccitto, senior partner McKinsey. Cifre alla mano, la “faccia pulita” della transizione ecologica potrebbe tradursi in un “attivo” di 15 milioni di nuovi occupati da qui al 2050.
Serve tuttavia una solida base, vale a dire bisogna far sì che fin da ora le condizioni ci siano: proprio perché le aziende non possono, da sole, riconvertirsi “dalla sera alla mattina”: nessuno possiede la bacchetta magica.
Ma chi pensa ai consumatori?
La situazione, in buona sostanza, ha iniziato ad assumere connotati ben drammatici (per usare un eufemismo). Vero è – e ciò appare incontestabile – che sia necessario creare delle basi concrete non solamente dal punto di vista delle infrastrutture per la ricarica (tenuto sempre conto del fatto – e saremmo ben lieti di venire smentiti ma finora non ci risulta che le condizioni ci siano – che per molti utenti le necessità di spostamento non favoriscano la e-mobility: basti pensare ai milioni di italiani che vivono in provincia, o nelle migliaia di piccoli Comuni, o che si servano poco dell’automobile), ma anche sotto forma di potere d’acquisto.
Riduzioni drastiche delle accise sui carburanti: chissà quando ci si arriverà davvero
In un Paese sempre più vessato da tasse e imposte, che fa leva soprattutto sul portafoglio dei consumatori e delle piccole e medie imprese per le entrate pubbliche, ci si domanda come mai a livello politico non si abbia ancora messo mano alla eterna questione delle accise sui carburanti, che pesano per oltre il 60% sul costo del “pieno” e vanno inevitabilmente a gravare sulle tasche dei consumatori. I quali, in cambio, non ricevono nulla se non nuove tasse.
Serve favorire il potere d’acquisto
Il passaggio all’elettrificazione, ammesso che un giorno prenderà piede in forma definitiva, dovrebbe essere accompagnato da una serie di forme di incentivo indirette che genererebbero un circolo virtuoso a beneficio dei privati e, di conseguenza, del pubblico: detassazione, riduzione delle imposte, un drastico taglio alle accise. Altrimenti, la “generazione 1.000 euro al mese” resterà tale, e non avrà le risorse economiche per potersi permettere una nuova auto. Né elettrica né ibrida né in qualsiasi altra forma di alimentazione.